In un saggio di Marshall McLuhan dal titolo Galassia Gutenberg l'autore in merito al linguaggio dei bambini riporta la seguente citazione: «La confraternita dei bambini è la più grande di tutte le tribù selvagge, e l'unica che non dia alcun segno di estinzione». Questa frase, a distanza di molti decenni (Galassia Gutenberg è stato pubblicato negli U.S.A. circa a metà degli anni '50 del secolo scorso) pare ottimistica, non in relazione all'incremento demografico o alla sua evoluzione a livello planetario, quanto piuttosto in merito allo sviluppo occidentale che ha inglobato anche questa grande tribù selvaggia inquadrandola nella sua tecnica sociale.
I dieci giorni d'infanzia narrati in questo racconto provengono da un tempo (locale) che non esiste più, benché l'autore che lo ha vissuto sia ancora vivente alla data attuale, e per quanto la storia narrata sia frutto di invenzione l'ambientazione e i personaggi sono verosimili; “quel” mondo era più o meno così (a livello infantile), e per quanto sia possibile localizzare le poche battute dialettali e in definitiva individuare la città, i luoghi e le persone descritti sono frutto di invenzione e non esistono. Sebbene certi eventi narrati siano effettivamente episodi di infanzia dell'autore l'invenzione prevale in massima parte.
In quel mondo “lontano” la tribù dei bambini poteva sviluppare un linguaggio (di cui nel racconto sono dati sparuti esempi forniti di succinta spiegazione e di traduzione) proprio perché aveva “per sé” lo spazio e il tempo che oggi sono dominati e regolati dalla Società Globale; i bambini di oggi sono dei piccoli adulti inseriti nel mondo dei grandi dove non hanno uno spazio e un tempo esclusivamente per loro che i “grandi” non abbiano già organizzato allo scopo; la tribù dei bambini esiste ancora ma vive come in una riserva. Non si vuole evocare “il bel tempo che fu”, ogni infanzia può essere meravigliosa oppure orribile ovunque e comunque indipendentemente, qui si vuole solo narrare una storia includendovi pochissime parole (quelle che l'autore ricorda) di un linguaggio infantile che, per quanto puerile o sciocco e formato solo da poche decine o al più poche centinaia di vocaboli strani, aveva l'aspetto e la tradizione del linguaggio in quanto appreso e tramandato di generazione (di bambini) in generazione (di bambini). Per quanto puerile, questo linguaggio, come qualunque gergo infantile, racchiudeva un mondo ed evocava le sue mitologie e le burocrazie del gioco in totale autonomia dal mondo degli adulti, i quali (solo se di tradizione strettamente locale) lo avevano parlato a loro volta nella loro infanzia. Il linguaggio stesso escludeva l'adulto, un ragazzo di 13-14 anni si sarebbe vergognato di fare uso di quel gergo infantile, che si tramandava solo fra bambini e che segnava e marcava il mondo di questi, la loro tribù. Questo linguaggio, sporadicamente accennato nel racconto, è un gergo di derivazione dialettale locale e si mescola al vernacolo parlato dagli adulti, delle cui pochissime espressioni riportate viene data traduzione / significato di seguito alla frase / parola; il linguaggio di questa tribù dei bambini è uno scimmiottamento dei grandi, che sono sempre strani, noiosi e a volte anche pericolosi.
Nel mondo dell'infanzia la fantasia assume valore di verità e diviene creatività nel gioco, che è il “vero” dei bambini, ciò che è fuori dal gioco disturba, interrompe quel vero mondo e tuttavia non può essere tenuto lontano. Non credo sia possibile affrontare la scrittura di un racconto sull'infanzia senza avere letto e apprezzato Huck Finn, Tom Sawyer, Pinocchio, I ragazzi della via Paal, (in merito alle cui narrazioni è evidente l’ambientazione di riferimento, ovvero l’infanzia come evento in sé, espressione e ambientazione degli interpreti: i bambini nel loro mondo [a quel tempo come «mondo» ancora disponibile ed esclusivo dell’infanzia]) e altri magari più recenti racconti come “Paddy Clark ha-ha-ha”, il cui titolo è già un romanzo infantile in sé, oppure il bel racconto di John Barth “Lost in the fun house”, che pervade la parte finale di questa storia; il mondo dei grandi distrugge l'infanzia e il bambino sa, in qualche inconsapevole anfratto interiore, che diventerà un adulto, un “grande” che forse non è certo di voler diventare, perché lui quei grandi li ha osservati bene, come ha osservato il mondo dal lato del gioco; però li ha osservati dalla distanza dell'infanzia che può ancora trovare rifugio in se stessa, però quella finirà e non ci sarà una soglia, un confine che sancisca la differenza; l'infanzia è tale solo “dentro” e di fronte al mondo degli adulti, che fino a cinquant'anni fa circa era separato da quello dei bambini da e con spazi e tempi propri e i bambini avevano un loro mondo con una sua geografia locale e una toponomastica definita dal gioco. Oggi nessun bambino gioca più in strada o in campetti di periferia, che nemmeno esistono più; l'urbanizzazione ha inglobato la civiltà tribale dei bambini.
Al di fuori di ogni e qualunque nostalgia questo racconto può assomigliare alla testimonianza di una civiltà-tribù scomparsa, compreso il suo linguaggio; oggi “pìrule” può eventualmente avere un significato lontano per qualcuno come colui che qui scrive o i suoi coetanei se rammentano la parola, oggi quel linguaggio infantile è defunto sopraffatto dal progresso.
In merito al dialetto romagnolo riportato in sparute frasi o battute si può facilmente tradurre la definizione fornita nel testo in italiano corrente nel proprio vernacolo o lingua senza che il testo cambi di senso; il dialetto (qualunque vernacolo locale) racchiude un'intimità che è propria del parlante e famigliare insieme, non è un aspetto tribale ma ci assomiglia, e l'invenzione è libera per l'autore come per il lettore.
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Título : Pìrule
EAN : 9791223076750
Editorial : Eric Bandini
Fecha de publicación
: 13/10/24
Formato : ePub
Tamaño del archivo : 933.85 kb
Protección : Filigrane numérique
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